Accesso ai servizi

L'identità di Francavilla Marittima - Tra la memoria dei vicoli e la sacralità dell’acqua a cura della d.ssa Rossana Lucente

L'identità di Francavilla Marittima - Tra la memoria dei vicoli e la sacralità dell’acqua a cura della d.ssa Rossana Lucente


Alle prime luci dell’alba, le donne, lasciavano le loro case per recarsi con la lanterna in mano e l’orcio nel rione Fontana Vecchia.
Proprio lì, dove da tre cannelle, sgorga perennemente l’ acqua pura e fresca della Fontana Vecchia.
La fontana, monumento di desideri segreti e di nostalgie, è caratterizzata da un frontale in mattoni (datato 1897) sormontato da un timpano dal cui grembo aperto nasce un leone digrignante in marmo (datato 1793, commissionato dal Marchese Serra).
Segno tangibile del potere feudatario e del semplice mondo contadino.
Il rione, si arricchiva architettonicamente di edifici signorili, del Palazzo Montilli (1900), del Palazzo De Santis (1900), del Palazzo Taranto (1836).

Lo scorrere continuo dell’acqua innocente, sorvegliata dal ricordo di una Torre di guardia, accompagnava come una nenia i pettegolezzi e gli scandali amorosi, sussurrati con voce agitata dalle donne che sgomitavano per accaparrarsi le brocche e i barili già colmi.
L’acqua ristoratrice si raccoglieva in tre vasche marmoree, dove anche i somari potevano abbeverarsi, tra le donne che accorrevano dai vari rioni.
C’erano le donne del rione Fuorimura, quello che delineava la presenza delle mura di cinta, dove si aprivano quattro Portoni a difesa degli attacchi e dei pericoli esterni.
C’erano le donne del rione Borgo, quello più antico, caratterizzato dalle abitazioni strette le une alle altre, le viuzze buie e di corto respiro.
C’erano le donne del rione Terrata, quello più vitale, animato dal richiamo dei venditori di ortaggi, dal martellìo della bottega del calzolaio, dalla bellezza dei tessuti della bottega del sarto, dalle allegre chiacchiere della bottega del barbiere, dalla severità dell’esattoria, dalle cure dell’ambulatorio medico.
C’erano le donne del rione Rimissa, quello più elegante, dove circolavano le pregiate carrozze dei Germani Rovitti.
Ma le ombre gettate sulla ricchezza degli avi, forse raggiunta a causa della rivalsa su di un brigante, venivano generosamente riscattate dalla volontà degli eredi (testamento del 1935): rinnovo del gentilizio Palazzo Rovitti (1800) in ente morale, ossia, comunità monastica, mensa dei poveri, orfanotrofio, asilo per l’infanzia e ospizio per le donne anziane.

C’erano le donne del rione S. Lucia, dove sorge la Cappella di S. Lucia (1881); in onore della Santa nella notte del 12 Dicembre, veniva cotto il grano in cui la Martire avrebbe posato la gentile orma del piede.
C’erano le donne del rione Carmine, dove sorge la Chiesa della Madonna del Monte Carmelo (II metà del 700), giaciglio del riposo eterno dei defunti, accompagnati nel loro viaggio dalla bottiglia con il loro nome sul biglietto all’interno, da recuperare dopo il “Diluvio Universale”.

C’erano le donne del rione Canale, caratterizzato dallo scorrere dell’acqua piovana, nei pressi della Chiesa Matrice L’Annunciazione del Signore (1700, ma già Cappella del Rosario del 1400), dalla edificazione della Chiesa della Madonna degli Infermi (1800, ma già Cappella Sanseverino del 1500) e del signorile Palazzo Rizzi (1800).
C’erano le donne del rione Ariella, dotato di posizione panoramica arieggiata e luminosa, nei pressi della dimenticata apparizione della “Madonna della Grotta”.
C’erano le donne del rione Bosco Trecase, provvisto di rarissime abitazioni e circondate dalla bellezza della selva boschiva, vibrante di canti di civette, dallo sguardo inquietante ad annunciare prossime morti.
C’erano le donne del rione Gropulella, dalla distribuzione spaziale affine alla vicina Lauropoli, dove sorge la Cappella di S. Emiddio (1800).
Le donne tornate a casa preparavano piatti di zuppa di “licurda” (cipolla e uova), la minestra di “cappuccio” (verza con carne di caprettone) nel giorno 15 Settembre, per la ricorrenza della Madonna degli Infermi;
la pasta fatta a mano, i “frizzuli” al sugo, la “lagana” con ceci nel giorno di S. Giuseppe;
la frittura in olio, con le olive faticosamente raccolte, dei “siccatiddri” (melanzane e zucchine essiccate), della “stiddiula” (involtini di interiora di capretto);
il profumo della “pitta” (ciambella), della “strazzata” (pizza) e della “gusciula” (focaccia con strutto di maiale) cotte nel forno a legna;
la lavorazione della conserva di pomodoro, i sott’olio e sott’aceto di capperi, di carciofi selvatici, di “scapicia” (melanzane), di pomodori e peperoni essiccati al sole, di olive verdi in salamoia, di olive verdi schiacciate e di olive nere essiccate.
Pietanze povere accompagnate dal “pipazzo forte” (peperoncino piccante) e dal vino, con l’uva schiacciata dai piedi nudi nel tinozzo.
Solo nelle giornate festive si gustavano i dolci, i “filagoni” con ricotta, i “pizzicuddruvi” e le “coddrure” del periodo pasquale;
con i “cannaricoli”, le “grispeddre” e la “giurgiulina” del periodo natalizio, quando nella notte del 24 Dicembre, gli animali nelle stalle ricevevano il dono di parlare, mentre le anziane tramandavano la misteriosa recita contro il malocchio.
Un vero evento la “mattanza del maiale”, con la preparazione di insaccati, fino alla realizzazione di uno strumento, il “cupu-cupu”, suonato dai bambini a Carnevale, con il passaggio alla Quaresima sottolineato dalla festa di “Ruppapignate”.
I bambini che si divertivano con la semplicità dei giochi, il lancio delle pietre, il cerchio e il bastone, la trottola.
Luogo di sosta e di incontri, la Fontana Vecchia, diventava anche luogo di giustizia, perché solo davanti a questa fonte non esisteva la sciagurata differenza tra i ricchi e i poveri:
l’acqua era l’unico bene prezioso a mancare proprio a tutti!
L’acqua specchio degli spiriti, quando nella sera del 1 Novembre, i bambini bussavano alle porte per ricevere in dono i “fichi secchi”, preparati per la ricorrenza dei defunti.
Ma la leggenda della notte del 1 Novembre, raccontava dei rumori delle catene legate ai piedi dei cari trapassati, durante il ritorno in processione sulla terra. Cari che trovavano pace nell’estate più calda, soltanto con l’acqua versata dai vivi sull’uscio di casa.
In quei tempi, le donne, alla ricerca affannosa dell’acqua, s’inginocchiavano presso il torrente Sciarapottolo, il torrente secco o sacro (che negli anni 60’ restituiva i resti di una colonna tufacea greco arcaica).
Proprio lì, dove, si poteva percepire anche la presenza sinistra degli “scippacori”.
Ma le donne erano lì a lavare i panni, sbattuti con forza sulle pietre, con il sapone preparato in casa e il risciacquo nelle acque del torrente, ora generoso, ora arido e maledetto.
Gesti familiari e ripetitivi, tramandati da madre in figlia, figlie spiate come apparizioni di Ninfe Lusiadi, dagli uomini incuriositi e nascosti tra i cespugli di macchia mediterranea e il profumo degli oleandri.
L’acqua purificatrice dei peccati e delle colpe umane, diventava il miraggio degli Eremiti, al riparo nella grotta di Timpa Oliviero.
Pareti rocciose circondano il territorio, quelle di Pietra Catania, sovrastate dall’area Crocetta, dove il canale del Lauro, tra il suo inconfondibile profumo di alloro, svela alla vista la sorgente Fontanella.
Quelle della Timpa del Demanio, dove le mani rugose delle contadine raccoglievano la legna, per poi riposarsi presso la Pietra di Orlando.
Quelle del Timpone del Monte che ammira le nobili forme della Timpa del Castello (350 m.), a ricordo di un ipotetico scomparso castello medievale e terrazza spettacolare affacciata sul centro abitato, sul nuovo rione Silva che accoglie la moderna Chiesa di S. Rita da Cascia e sulla distesa piana della Sibaritide.
Le aspre timpe, generatrici di cavità naturali e di grotte, verso le quali i pastori pascolavano il gregge, utilizzando lo stillicidio delle fessure rocciose per un goccio di acqua salvatrice.
Le grotte a valle del fragoroso torrente Raganello, confluente del Mare Jonio, a bagnare i giardini di uliveti e aranceti di Murate di Rovitti, Saladino, Marinette, Cicirello, Garoccia, Vigne, S. Filomena, Alvani, Garamme, Terzerie, Gramignazzo, Rosaneto, Piano della Torre, Rossi e Vrichetto.

La produttiva contrada Rossi, con l’attivazione industriale (nel 900’) della Funicolare, provvista di teleferica per il trasporto di tronchi di abeti e di faggi, dal Monte Pollino al demolito stabilimento.
Lo straripante torrente Raganello ma provvidenziale, con le sue acque sfruttate (negli anni 30’) per la prima opera urbana di elettrificazione.
Quando le donne lentamente cominciarono a posare le lanterne, a spegnere le fiaccole, rubate alla legna che ardeva nei caminetti.
Così come veniva già realizzata (negli anni 30’) la prima rete di fognatura, quando le donne svuotavano i vasi da notte nascosti sotto il letto, lungo le vie, tra i cespugli di rovi, nelle costruzioni in rovina.
Accompagnata dalla realizzazione della prima rete idrica, con l’acquedotto Pisciottolo, e, le “sette figlie della Fontana Vecchia”, a lambire i diversi rioni assetati da secoli.
Il letterario e navigabile torrente Raganello, corteggiatore delle terre rosse delle leggendarie città di Lagaria e di Sinopia.
A valle del torrente Raganello, le grotte diventavano anche il rifugio delle persone spaventate, quando i soldati Tedeschi circolavano e riecheggiava lo scoppio delle bombe durante i conflitti mondiali.
Le grotte mitiche, scenari di presenze maligne, di folletti dispettosi, di tesori nascosti nella grotta di S. Giovanni da feroci briganti, scrigni di gioielli e monete d’oro sotto il velo di incantesimi e malefici.
Le superstizioni pagane, s’intrecciavano ai voti e ai fioretti legati al Patrono S. Gaetano, alle coperte del corredo ricamate a mano, stese sui balconi quando sfilava la processione del Corpus Domini.
Il rituale dell’acqua, veniva espresso dalla popolazione nei canti di amore e di gelosia, quando il giovane cantava all’amata:
“Nemmeno dell’acqua ti devi far toccare…”.
E nei canti religiosi, durante la Passione di Cristo, quando i penitenti si flagellavano si elevava il canto dell’Addolorata al Figlio:
“L’acqua creasti e non la puoi assaggiare…”.
Mentre davanti al S. Sepolcro, giacevano i vasi fioriti nel buio dei cassoni, ricchi di germogli di granturco, ceci, veccia e grano.
Il legame con la Vergine Maria, veniva sancito con il ritrovamento nella notte del 1805, annunciato dal suono di una campanella e dalla luce di quattro candele, di una tela con la Madonna col Bambino in una cappella abbandonata, incorporata successivamente nella Chiesa della Madonna degli Infermi.
Luogo di guarigioni miracolose e di esorcismi, dove i pellegrini scalzi o in ginocchio, a volte strisciando la lingua a terra, percorrevano il percorso sino alla sacra immagine, davanti alla quale anche i vitellini, condotti per grazia ricevuta, s’inginocchiavano.

L’originaria Cappella apparteneva al Feudatario Sanseverino (a cui seguì il Feudatario Serra e la Famiglia Apolito), legato alla fondazione di Francavilla nel corso del XVI secolo, come attesta la corona che primeggia nel gonfalone comunale (dove i rami di ulivo e di quercia racchiudono l’arma, costituita dal villaggio rosso, sormontato da una torre merlata alla guelfa, con contorno di croce e di stelle azzurre).
Già in età Medievale (1169, diploma di Re Guglielmo II), il territorio di Francavilla, veniva definito Divisa (territorio divisorio tra Cassano e Cerchiara) o Tenimento, confermato al Monastero Cistercense della Sambucina di Luzzi.
Successivamente veniva definito Casale (1402, bolla di Bonifacio IX - 1496, privilegio di Re Federico di Aragona a beneficio del Principe di Bisignano) confermato all’Abbazia di S. Maria della Mattina di S. Marco Argentano.
Il toponimo di Francavilla o Villafranca, denunciava l’esistenza di un villaggio libero dal dominio dei vassalli, a garanzia di una colonia di contadini fedeli al Feudatario.
Ma il territorio di Francavilla seguiva le sorti di Cassano allo Jonio, dalla supremazia feudataria di Ruggero De Amicis (1248,bolla di Innocenzo IV), al Conte Francesco Sanguinetto di Corigliano (XIV sec.),dal Principe Luigi Sanseverino di Bisignano (1595, tassato per fuochi 72) sino al Giovan Francesco Serra, patrizio genovese (1622, per ducati 500.000).
Dopo l’eversione del Feudalesimo Francavilla si staccava dalla egemonia di Cassano e diventava Comune indipendente (1811), sino ad essere qualificata come Marittima (1864).
Ma la storia di Francavilla Marittima, risale alla Magna Grecia, patria di eroi, poeti, atleti, oracoli e fate, quando veniva fondata, tra il Cylistaros e il Ciris (Raganello e Agri), la città fortificata di Lagaria da Epeios e i Focesi (dal nome della madre dell’Ecista).
Ma, Epeios, aveva già prelevato dal Bosco Cernostasi, nell’area della Fonte Scoscia, il legname per la costruzione del cavallo di Troia.
Epeios, al ritorno della guerra di Troia, seppelliva gli strumenti da artigiano a Macchiabate nella Tomba del Cerchio Reale, consacrandoli alla Dea Athena Eilenìa (protettrice delle arti e delle scienze e dalla forza di fermare gli immigrati), successiva alla Dea del Telaio (protettrice delle tessitrici) e precedente al Dio Pan (protettore dei pastori e delle greggi).
I Templi lignei e successivamente in pietra (VIII – VI sec.a.c.), sorgevano sull’acropoli del Timpone Motta, dove veniva praticato il culto dell’acqua e della lana (come dimostrano i kanthariskoi e kalathiskoi riemersi dal sottosuolo), sino alla penetrazione dei ribelli Bruzi e alla distruzione del Santuario (IV sec.a.c.).
Ma il Timpone Motta continuava anche nell’Età Bizantina ad essere elevato a luogo di culto (resti di Cappella del X sec.d.c.).
Mentre l’abitato di Capanne Indigene e poi di Case Greche (età del Ferro – età coloniale) si distribuiva sui Pianori.

La celebrazione dei riti funebri, avveniva nella Necropoli di Macchiabate (VIII – VI sec.a.c.), caratterizzata dalle tombe in ciottoli fluviali, e, separata dal Timpone Motta tramite il canale Dardania (dal Re Dardano di Troia).
Lì nella vicina Sferracavallo, dove i cavalli Napoleonici si sferravano contro il terreno ciottoloso, e, dove, i cinghiali correvano nella Drisa circondati dal rigoglioso Bosco S. Stefano (sede del Castello Lagarino, dove Alessandro il Molosso istituiva la sede per le assemblee dei Greci Italioti).
La mancanza di fonti e sorgenti sul Timpone Motta, vedeva file di devoti Enotri e colonizzatori Achei, salire verso l’acropoli sacra presso l’Athenaion, trasportando faticosamente l’acqua (contenuta nelle hydrie restituite dalla terra).
Sul focolare-altare del Timpone Motta, venivano consumati sacrifici propiziatori, mentre la statua della Dea Athena e il ricco peplo, venivano sottoposti a bagni devozionali, nella silenziosa invocazione di protezione e di clemenza.
La memoria dell’acqua, riemerge lentamente come un eco nella coscienza del popolo francavillese, attraversando l’oblio dei tempi e incontrando luoghi ancestrali, sino a fondersi nelle radici e nella spiritualità del nostro vissuto, determinando così l’ identità più vera e più profonda di Francavilla Marittima.

BIBLIOGRAFIA CONSULTATA

De Gaudio Mario, “Fontana vecchia” - Marzorati, Settimo Milanese 1993;
De Santis Tanino, “La scoperta di Lagaria” - Corigliano Calabro, 1964;
Barone Vincenzo, “Cerchiara. Storia società e cultura di calabria” - Fasano, 1982;
Kleibrink Marianne, “Dalla lana all'acqua. Culto e identità nell'Athenaion di Lagaria” - Rossano, 2003,
Massaro Giuseppe, “Diadema della Sibaritide” - Prometeo, Castrovillari 1997