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Omero a Francavilla Marittima di Giorgia Gargano



Sul Timpone della Motta identificati i resti della mitica Lagaria

Omero a Francavilla Marittima di Giorgia Gargano


C’è stata una volta una guerra da cui il tempo avrebbe saputo lentamente distrarre il ricordo fino relegarla, come tante altre, nell’oblio, se non fosse stata scritta e tramandata da uno o più poeti di lingua greca, che riassumiamo nel nome di Omero: la guerra di Troia.Tutti ricordiamo, non fosse altro che per dovere scolastico, la guerra dei Greci contro la piccola città arroccata su una collina dell’attuale Turchia settentrionale; l’estenuante assedio di dieci anni; l’ira di Achille - il più valoroso dei guerriglieri micenei - contro il re Agamennone; la morte di Patroclo, il caro amico di Achille, per mano di Ettore, principe e eroe troiano splendido anche nella morte cruente infertagli da un Achille furioso e dimentico persino del rispetto degli anziani e dei morti. Infine a nessuno sfuggirà il ricordo dell’agognata soluzione del conflitto, con lo stratagemma ideato da Ulisse, da allora in poi per tutti “l’astuto”: l’invio a Troia del cavallo di legno con la pancia piena di eroi greci, cavallo accolto - nonostante i disperati ammonimenti di Cassandra, la profetessa destinata a non essere mai ascoltata - dagli ingenui Troiani come un dono degli dei.L’idea fu di Ulisse, ma passa solitamente sotto silenzio colui che materialmente costruì il cavallo, che pure è citato da Omero. La sua fama fu quella di un semplice artigiano, un gigantesco bizzarro personaggio che non meritò durante gli anni dell’assedio altro che la derisione dei guerrieri micenei, tutti belli forti biondi determinati e donnaioli - come Omero ce li racconta. Epeios non poteva reggere il confronto: nato codardo, nonostante la stazza, pavido di fronte ai giavellotti, venne usato dal re Agamennone e da suo fratello Menelao per l’ingrato compito di trasportare l’acqua all’accampamento, tanto che il suo nome venne poi associato agli asini idrofori. La sua mansuetudine e la fedele costanza nel lavoro non gli risparmiarono le risate a crepapelle degli eroi, quando lo videro lanciare il disco in occasione dei giochi funebri voluti da Achille in onore di Patroclo. Eppure era anche un buon pugile, diciamolo un omone dotato di forza bruta e non raffinata, che lo escludeva dalla schiera dei vincenti. Epeios conosceva bene la forza delle sue mani: da quell’abilissimo artigiano che era, in breve costruì il cavallo di legno che avrebbe fatto la fortuna del suo re e dei Greci micenei. Soprattutto, la sua dedizione muta al faticoso trasporto quotidiano dell’acqua gli attirò la simpatia della dea Atena, che gli apparve in sogno e gli ordinò di donarle gli utensili che aveva adoperato per la costruzione del cavallo.La stessa Cassandra preconizzò che Epeios avrebbe dedicato i suoi attrezzi in un Athenaion costruito dove lui stesso avrebbe fondato la città di Lagaria, poco a Nord del territorio della colonia di Sibari, a sua volta fondata dai Greci sulla costa ionica della Calabria nel 720 a.C. circa cioè quattro secoli dopo la guerra di Troia. Ecco dunque ordita dal mito la trama che, ancora una volta, mette al centro dell’attenzione le relazioni tra il mondo greco e la nostra regione,parte integrante di quella Magna Grecia in cui affondiamole nostre radici e della quale, brano a brano, gli archeologi vanno recuperando le tracce lasciate in pace dal tempo, dall’incuria e … dagli scavatori clandestini.Sul Timpone della Motta di Francavilla Marittima, un paesino della Sibaritide, da diversi decenni vanno avanti le indagini su una stratificazione archeologica eccezionale nel panorama italiano: almeno cinque secoli di storia si sovrappongono e definiscono i contorni di una civiltà indigena piuttosto rara da rintracciare: quella del popolo degli Enotri, ai quali si accompagnano senza apparenti sovrapposizioni violente i coloni Greci. Di importanza centrale nell’insediamento Enotrio doveva essere la cosiddetta “casa delle tessitrici una grande abitazione risalente all’inizio dell’VIII secolo a.C., all’interno della quale donne di status elevato e riccamente abbigliate e ingioiellate tessevano attorno a un telaio monumentale, del quale ci restano i grandi pesi di terracotta. Che non si tratta di una dimora privata lo darebbe a pensare la ricchezza degli ornamenti di bronzo rimasti sotterrati, quando la casa venne spianata e sepolta, cioè in qualche modo rispettata, al momento di costruirvi al di sopra il più antico tempio conosciuto in Italia: un tempio ancora di legno all’interno del quale, forse continuava il culto di una “dea della tessitura” che in Grecia portava il nome di Atena e che forse era venerata anche in terra italica. Di certo ad Atena è dedicato il tempio III, un altro dei cinqueche sin dall’età arcaica vennero impiantati sull’acropoli del Timpone della Motta, a costituire un’area santuariale imponente e complessa, caratterizzata sin dalla sua fase più antica, che risale agli anni intorno al 720 a.C., da donativi alla divinità che vi veniva venerata piuttosto particolari: i fedeli vi portarono per anni e anni centinaia di coppette e vasetti in miniatura per bere, alcuni prodotti localmente altri d’importazione greca, a indicare come il popolo indigeno convivesse pacificamente con i coloni che erano subentrati a Sibari. Alla divinità cui il santuario era dedicato, inoltre si portavano strane imitazioni in terracotta di cesti e piccoli vasi portaoggetti; la compresenza con questi vasi, di fusaiole, tenuta presente anche la più antica casa delle tessitrici, lascia pensare che il contenuto di questi fasi fossero bioccoli di lana non filata e profumi, comunque simboli di un mondo prevalentemente femminile. Di un mondo legato, anche nella Grecia propria, alla dea Atena, vergine e guerriera, la protettrice di Epeios, colui giusto poco a nord di Sibari avrebbe dovuto fondare una città e un tempio a lei dedicato. Al mito e al culto di Epeios gli studiosi pensano da molti anni in riferimento al sito archeologico di Francavilla, in particolare da quando nella necropoli vicina al santuario venne scoperto il tumolo di Cerchio Reale, con un complesso di 14 sepolture disposte attorno ad una centrale che aveva la forma di una capanna e non conteneva scheletri, ma molti utensili da lavoro. Che fosse la tomba del mitico Epeios, l’artigiano portatore d’acqua, fedele alla promessa fatta alla dea Atena e fondatore di Lagaria? Oltre alle suggestioni, c’è ovviamente altro:quanto più l’archeologia si pone a confronto della storia e del mito, tanto più si dimostra l’attendibilità dei racconti degli storici antichi e la verità storica celata dietro la maggioranza dei miti greci, che furono mezzi di trasmissione di antiche conoscenze piuttosto che racconti frutto di immaginazione, appartenenti a società che siaffidavano ad un linguaggio simbolico i cui livelli di lettura, come dimostra oggi la scienza archeologica, sono articolati e mai casuali. I rinvenimenti nel santuario di vasi raffiguranti la festosa processione per la donazione di coppette piene d’acqua alla statua di Atena, al di là del significato di purezza insito nell’acqua stessa (che doveva essere trasportata dal fiume ai piedi della collina, dato che nelle vicinanze del santuario non c’erano fonti), lega indissolubilmente la dea al personaggio di epeios, tanto che la professoressa Marianne Kleibrink dell’Università di Groningen, che, su concessione della Soprintendenza Archeologica della Calabria, dagli anni 90 dirige le indagine sul sito, ritiene che il tempio fosse dedicato sia alla dea sia all’artigiano.La dedica del santuario sarebbe pertanto lo specchio di una condizione in cui il culto Enotrio della tessitura era già stato associato a quello greco dell’artigiano e forse dobbiamo guardare un po’ più in là per capire davvero la dinamica dell’inserimento del mito di Epeios. E’ noto la ricchezza dei corredi funerari entri - sia quelli della Calabria che quelli della Basilicata - come peculiari delle espressioni materiali di questo popolo fosse la grande tecnica di lavorazione dei metalli alla quale, data la vicinanza ai boschi del Pollino, doveva accompagnarsi anche la sapienza della lavorazione del legno, i cui prodotti però sono ovviamente stati cancellati dal tempo. Rientrerebbe in una consuetudine greca l’assimilazione delle migliore caratteristiche indigene alla propria mitologia, in modo da fare proprio e radicare in una più nobile antichità consuetudini che erano state fino ad allora peculiari di un altro popolo. In altre parole, i Greci avrebbero innestato il mito di Epeios sul culto della di una dea della tessitura Enotria che era facilmente equiparabile alla loro Atena, trovando evidentemente un accordo in tal senso con gli indigeni e conquistandosi così una fetta di spazio religioso della propria patria in terra straniera.Quanto abbiamo raccontato fin qui non rende giustizia della ricchezza delle scoperte archeologiche e neppure del duro lavoro di chi deve ogni giorno scontrasi con l’ormai cronica carenza di fondi ma soprattutto con il lavoro parallelo, disturbante e distruttivo di spregiudicati scavatori clandestini che trovano buoni mercati in Italia e all’estero, distruggendo sistematicamente e svendendo il patrimonio culturale della nostra Calabria. Francavilla però rappresenta un unicum per certi aspetti: pur essendo un piccolo comune, ha già programmato una serie di iniziative serie e innovative per garantirsi la continuità delle indagine archeologiche che, una volta tanto, vengono viste come risorse e non palle al piede. Oltre a promuovere insieme alla Soprintendenza, la creazione di un parco archeologico – che merita di essere visitato anche in virtù di un innegabile plusvalore paesaggistico - ha costituito un’associazione Onlus per creare la Scuola Internazionale d’Archeologia “Lagaria” presieduta da Giuseppe Altieri, che è anche Vice Sindaco e che ha attirato all’associazione un comitato scientifico di tutto rispetto; “Lagaria” avrà come scopo l’attività di divulgazione e di ricerca archeologica sugli entri e già da quest’estate curerà l’ospitalità per tutti i giovani studenti italiani e stranieri che vorranno partecipare alle campagne di scavo sul Timpone della Motta. Un’iniziativa che ci pare vada agevolata, anche perché si prospetta nella direzione di una leale valorizzazione di un sito archeologico che, seppure come è giusto deve aprirsi ad un’ottica di profitto turistico, non per questo viene trattato come un mero “prodotto turistico”, grande rischio che accomuna, di questi tempi, quanti si trovano a gestire il patrimonio culturale nazionale, sia esso un bronzo di Riace o un parco archeologico di un paesino di provincia.